antisemitismo
Giustizia,  Politica

Deportazioni

16 giugno 1944, Genova. Nel pomeriggio di quel giorno i tedeschi fecero irruzione negli stabilimenti della Ansaldo, San Giorgio, Piaggio e Siac, rastrellando 1.488 operai che vennero deportati a Mauthausen. Quegli uomini furono così costretti a intraprendere lo stesso viaggio imposto a tanti ebrei. Anche di deportazioni parla La Storia, un romanzo di Elsa Morante recensito da Natalia Ginzburg:

«Della Storia, romanzo di Elsa Morante, vorrei parlare non come critico, cosa che io d’altronde non sono, e nemmeno forse come comune lettore, ma vorrei parlarne invece come romanziere (…). La Storia è un romanzo scritto in terza persona. Un romanziere oggi, della terza persona, ha paura come di una tigre. Egli sa che nella terza persona, nell’egli, si nasconde ogni specie di pericolo. Scrivendo «io» si sente un poco più sicuro, perché tutti i suoi confini sono subito denunciati. Nella Storia, l’io narrante esiste, ma si affaccia solo ogni tanto, e nello spazio di poche righe. L’io narrante è però, nella Storia, importantissimo, e non denuncia dei confini, ma è invece il punto da cui viene contemplato il mondo. È un punto insieme altissimo e sotterraneo, dotato di uno sguardo che vede l`infinita estensione degli orizzonti e le infime e minime rughe e crepe del suolo. Tale sguardo non conosce limiti, né in estensione, né in profondità. Sceglie e raggiunge alcune fra le più sperdute creature della terra, segue il corso del loro destino e ne illumina la qualità misteriosa. In un simile sguardo, la felicità e la sventura, la vita e la morte, risplendono di luce diversa, ma sempre è luce. La tenebra non è nella morte, ma nei poteri occulti della Storia, che decretano la morte e la sventura degli umili, gli stermini e le stragi. La sventura non rappresenta, nei confronti della felicità, un crollo nella notte, ma piuttosto un’esplosione di luce ancora più abbagliante, così abbagliante che non riescono a reggerla né lo sguardo, né il cuore. La morte del cane Blitz, la partenza dei Mille dallo stanzone, la morte di Ninnuzzu, le parole ingiuriose di Davide al bambino Useppe («Vattene, brutto idiota, col tuo cagnaccio!») hanno gli accordi strazianti della sventura, ma non annientano gli accordi melodiosi della felicità, non ne spengono la gloria indistruttibile e immortale. La sventura, la malattia, la pazzia, la morte, sono offese orrende contro la felicità, l’infanzia e la vita, e tuttavia sono, nei confronti del-la felicità, dell’infanzia e della vita, in condizione di parità (…).

Quelli che hanno detto che La Storia ha parentele con il neorealismo, si sono sbagliati. Il neorealismo vedeva la seconda guerra mondiale, e Roma in quegli anni, e la borsa nera, e le deportazioni degli ebrei, e il dopoguerra, da vicino e però in piccolo, su uno sfondo dai contorni duri e precisi, suggellati da rozze speranze. Qui, le medesime cose sono viste in una dimensione immensa e confusa, in profondità e nello stesso tempo come da lontananze sterminate, e non ci sono più tracce di quelle stesse rozze speranze. La voce che racconta, nella Storia, è la voce di chi ha attraversato i deserti della disperazione. È la voce di chi sa che le guerre non hanno mai fine, e che saranno sempre deportati gli ebrei, o altri per loro. (…) Il luogo della Storia è l’Italia. Si tratta di un’Italia nuova, che non era mai stata raccontata prima. La Storia non ha delle rassomiglianze, ma ha invece delle affinità. Le sue affinità più profonde sono con Dostoievski, e sembra che su questa Italia siano passate le ombre di Rogozin o di Dimitri Karamàzov, lasciandovi le loro impronte tragiche, e gli echi delle loro voci che cercano e chiedono il vero. L’Italia della Storia è un’Italia tragica. E il luogo che il caso ha scelto come luogo di sventura, affollamenti di vittime innocenti e ignare, uno fra i luoghi della terra che hanno visto i convogli degli ebrei, il ghetto vuoto, e prostitute uccise da misere mani desolate, e eterne e fiduciose attese di soldati morti.

Il fatto che uno dei protagonisti della Storia sia Useppe, ovvero un bambino, ci sembra del tutto naturale, e solo dopo un poco ci accorgiamo di essere penetrati, con Useppe, in una dimensione nuova e ignota. Generato dall’orrore e dal caso, insidiato dal Grande Male, Useppe è nella Storia l`innocenza festosa e ignara, e insieme l’onniveggenza a cui non sfugge alcuna anche lontana sventura. Il destino e il pensiero di Useppe sono contemplati sia dall’amore della madre, sia dallo sguardo alto e lontano che ne insegue con eguale amore le orme leggere, ed egli è per noi nello stesso tempo un essere domestico e famigliare di cui sappiamo i lineamenti e i giochi e le frasi e le passeggiate, e anche il più segreto e misterioso fra gli esseri che si incontrano nella Storia.

Al termine della Storia, quando tutto sembra finito e concluso, e tutto è irrimediabile, sopraggiunge ancora Scimò, ragazzo libero e severo, padrone d’una sveglia e d’una medaglia, evaso dal riformatorio, imprendibile benché ricercato e poi catturato, e la sua breve e rapida apparizione è ancora felicità, e un ultimo dono della sorte per Useppe e per noi. Scimò porta con sé la felicità senza sorriso dei ragazzi maturati in libertà e per libertà, felicità indifferente e beffarda nei confronti del Potere, e che guizza fuori da ogni imposizione o prigione. Così all’ultimo sembra alzarsi, da questo romanzo disperato, una sorta di strana speranza» (Natalia Ginzburg, Appunti sulla «Storia», «Corriere della Sera», luglio 1974).

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *