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«Corriere della Sera»,  Natalia Ginzburg,  Politica

Austerity e pandemia

La scorsa domenica, prima domenica di austerità, per qualche momento mi è sembrato bello e allegro camminare per via Quattro Fontane, senza automobili, sotto il cielo notturno. La città era solo vento e pietra, l’aria inodore e gelata come in alta montagna.

Ma la gioia di camminare in una città senza automobili, non riuscivo a sentirla come una cosa giusta e innocente. Perché una delle peggiori maledizioni che ci sono cascate addosso, è che mai in nessun momento della nostra esistenza noi riusciamo a sentirci giusti e innocenti.

Poi mi sono accorta che il benessere di camminare in una città senza traffico, era un benessere soltanto fisico. Non generava né tranquillità, né pace. Forse mai come nel silenzio della scorsa domenica, risultò chiaro che la pace e la tranquillità sono beni per noi irraggiungibili. Siamo sempre in stato d’allarme, per noi stessi e per gli altri. Ma il peggio è che la nostra paura per gli altri non nasce in una zona vitale e generosa del nostro spirito, ma in una zona devitalizzata, freddissima e ingenerosa. Noi restiamo ferocemente egoisti, nel corpo e nello spirito, e la paura per gli altri si mescola all’egoismo e diventa un’altra faccia del nostro egoismo stesso (…)

Quando nella realtà che noi stessi abbiamo costruito e ricoperto di rumori e di motori, si apre un’incrinatura, quando ci viene fatto sapere che potrebbe anche non essere così solida, la realtà compare davanti al nostro sguardo spoglia, e noi comprendiamo che i rumori e i motori non erano affatto l’origine o la causa della nostra infelicità, ma un suo rivestimento esterno, un suo sintomo o un suo segno, e non già un fatto da considerare isolatamente.

In questo senso, l’assenza delle automobili domenica scorsa, nostra prima domenica di austerità, ci è sembrata al termine della giornata salutare e corroborante. Il nostro benessere era unicamente fisico, e noi non ci sentivamo affatto più felici per l’assenza delle automobili, ma ancora più insicuri, spaventati e infelici. Tuttavia si trattava di una infelicità che finalmente era possibile riconoscere e forse perfino illuminare con parole. Ci sembrava che fosse accaduto qualcosa che non invitava alla speranza – nel nostro suolo la speranza sembra non poter crescere – ma invitava alla verità (Natalia Ginzburg, Infelici nella città bella e orrenda, «Corriere della Sera», dicembre 1973)

One Comment

  • Mauro Masotti

    Le parole della Ginzburg mi riportano a una fase breve ma interessante della gioventù. Quelle domeniche senza automobili furono “strane” ma, allo stesso tempo, accattivanti. Proprio per questo non riesco a essere in toto d’accordo con la scrittrice. C’è un’attualità che, paragonata a quelle domeniche di austerity (come si chiamavano allora), risulta molto più triste se non angosciante. A maggio un’amica, telefonicamente, mi raccontò che durante il lockdown, per motivi di lavoro, era dovuta andare al centro di Roma utilizzando un autobus con pochi passeggeri. Camminando per le strade del Ghetto, avvolta da un silenzio inusuale, aveva sentito distintamente, in lontananza, il rumore della Fontana delle Tartarughe, tanta era l’assenza dei rumori ai quali noi romani siamo abituati nelle zone più intensamente trafficate. Questo contesto che io non ho vissuto nel 2020, essendo costretto a casa, mi proietta nella mente quella sgradevole sensazione di isolamento, distacco e perfino paura dalla quale è stato possibile emergere lentamente solo dal maggio successivo. Nelle domeniche di blocco del traffico del 1973 non la provavo. Innanzitutto potevamo uscire, potevamo accompagnarci con gli amici del quartiere; per recarci in luoghi più distanti prendevamo le biciclette e dovevamo fare i conti con una città che non è propriamente pianeggiante. Certo era curioso vedere via Cristoforo Colombo senza l’abituale traffico, percorsa solo dai taxi o dai convogli di tre autobus numero 93 (oggi 714) straripanti di passeggeri. Così come fu curioso, nella ricorrenza dell’Immacolata, assistere all’arrivo a piazza di Spagna di papa Paolo VI su un traino a cavalli; scelta operata per rispettare le indicazioni delle autorità civili italiane. Stranamente trovo le parole di Natalia Ginzburg molto più adatte alla situazione che abbiamo vissuto tra marzo e aprile del 2020 che non a quella condizione di parziale limitazione di cinquant’anni fa.
    Tuttavia mi sembra di cogliere nel suo ragionamento l’emergere di un solido pessimismo nei confronti del comportamento e dei sentimenti degli uomini; lo stesso pessimismo che determina oggi, in alcuni intellettuali, la convinzione che non usciremo migliori da questa pandemia. Penso che il pensiero della Ginzburg fosse influenzato da un retroterra culturale ed esistenziale ispirato al pessimismo leopardiano ma anche a quello di altri due giganti dell’800: Foscolo e Manzoni. Sì, anche Manzoni che, soprattutto nella fase precedente alla “Pentecoste” e ai “Promessi sposi”, guardava all’umanità come “graffiata” dal peccato originale. L’unica differenza tra Leopardi, Foscolo e la stessa Ginzburg da un lato e Manzoni dall’altro, sta nel fatto che quest’ultimo, al netto delle sue nevrosi, aveva intravisto la fonte di un vero conforto per la condizione umana.

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